Cooperazione UE nei Paesi ACP: sviluppo o trappola per le imprese europee?

Dietro i proclami di solidarietà e investimenti, si nasconde un sistema che lascia le aziende fornitrici senza pagamenti e con debiti da saldare.In apparenza, è una storia di successo: scuole ricostruite, laboratori high-tech, tribunali digitalizzati. L’Unione Europea investe miliardi nei Paesi ACP (Africa, Caraibi, Pacifico) e nei candidati all’adesione, in nome dello sviluppo e della cooperazione.Ma dietro la retorica degli aiuti e la narrazione ufficiale, si muove un meccanismo perverso. Un sistema che, con la scusa della solidarietà, finisce per mettere in ginocchio proprio chi dovrebbe realizzare quei progetti: le imprese europee. Aziende che vincono regolarmente bandi UE, consegnano materiali, rispettano capitolati e scadenze. E poi? Niente. Nessun pagamento. Solo obiezioni cavillose, contestazioni tecniche e richieste di rimborso assurde. Come se l’Unione si fosse improvvisamente dimenticata di essere il committente.“Abbiamo consegnato tutto, rispettando specifiche, scadenze e procedure. Ora ci chiedono la restituzione del prefinanziamento. È surreale”, denuncia – sotto anonimato – il direttore commerciale di un’azienda italiana coinvolta in progetti UE in tre continenti. Le regole sembrano semplici, ma solo sulla carta: le imprese partecipano a gare pubbliche, forniscono beni e servizi nei paesi beneficiari, e attendono il pagamento dalla Commissione Europea. Un modello che dovrebbe essere garantito da uno dei maggiori enti sovranazionali al mondo. E invece si trasforma spesso in un incubo burocratico. Note di debito, lettere di contestazione, cavilli formali. Basta un errore marginale, un dettaglio mal interpretato, e il pagamento viene sospeso. O peggio, annullato. Con un danno enorme per chi opera sul campo. È così che alcune aziende si ritrovano a finanziare, di fatto, progetti pubblici in paesi terzi, senza vedere un euro. Con le garanzie bancarie escusse e la liquidità azzerata, molte imprese rischiano il collasso.Nel frattempo, la Commissione Europea continua a sbandierare i propri successi sul fronte della cooperazione, mentre evita accuratamente di rispondere alle centinaia di contenziosi aperti con i fornitori. È ancora legittimo parlare di “aiuto allo sviluppo” quando il prezzo viene pagato da aziende europee, costrette a sacrificarsi in nome di un progetto che non le tutela?La strategia Global Gateway, lanciata nel 2021, doveva rivoluzionare l’approccio alla cooperazione internazionale, coinvolgendo attivamente il settore privato. Ma a quattro anni dal suo debutto, le imprese europee restano alla finestra, scoraggiate da un sistema opaco, inefficiente e ostile.Le richieste di semplificazione avanzate da numerosi Stati membri e Paesi partner si scontrano con una macchina amministrativa pachidermica, impermeabile a ogni tentativo di razionalizzazione. Il risultato? Sprechi, abusi e un clima di sfiducia diffuso. Nel febbraio scorso, presentando nuove proposte per rendere più competitiva l’economia europea, la Presidente von der Leyen ha dichiarato: “Simplification promised, simplification delivered”. Una promessa che dovrebbe valere anche per la cooperazione allo sviluppo. Ora, serve chiarezza. E responsabilità. La Commissione deve spiegare, con trasparenza, perché tanti progetti completati restano senza compenso. E deve farlo subito. Prima che altre aziende scompaiano sotto il peso della burocrazia. Prima che la parola “cooperazione” perda definitivamente il suo significato.

Da L. A.

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