Femminicidio: una ferita aperta nella coscienza collettiva

Il femminicidio non è solo un crimine, ma un sintomo profondo di una società che, ancora oggi, fatica a riconoscere la piena dignità della donna. Con il termine “femminicidio” si indica l’uccisione di una donna in quanto tale, spesso da parte di partner, ex partner o familiari, in un contesto di controllo, possesso e violenza.
Non si tratta semplicemente di omicidio: il femminicidio ha una matrice culturale, affonda le radici in dinamiche patriarcali, nella discriminazione di genere e nell’incapacità — o rifiuto — di accettare l’autonomia e la libertà femminile.
Ogni anno, decine di donne vengono uccise in Italia da uomini che dicevano di amarle. I numeri oscillano, ma il fenomeno resta tragicamente stabile. Non basta più indignarsi a ogni nuova tragedia raccontata dai media: serve un cambiamento sistemico.
La violenza di genere si manifesta in molte forme — psicologica, economica, sessuale, fisica — e spesso precede l’evento finale con segnali chiari: minacce, molestie, isolamento. Spesso, però, questi campanelli d’allarme non trovano risposte tempestive, sia da parte delle istituzioni che del contesto sociale.
La giustizia, purtroppo, arriva spesso troppo tardi. Le misure cautelari non sempre vengono adottate con la necessaria urgenza, e molte denunce cadono nel vuoto, ignorate o sottovalutate. In alcuni casi, la vittima è lasciata sola a combattere contro il proprio carnefice, priva di tutele reali. In questo scenario, il femminicidio rappresenta l’ultimo atto di un lungo percorso di violenza, che avrebbe potuto — e dovuto — essere interrotto prima.
È necessario agire su più livelli. Dal punto di vista normativo, servono leggi più efficaci ma soprattutto meccanismi di attuazione rapidi e sicuri.
Alcuni progetti pilota, come l’introduzione di dispositivi intelligenti antiviolenza, rappresenterebbero una forma efficace di deterrenza e di prevenzione.
Si tratta di braccialetti o anelli dotati di sistemi di allarme geolocalizzati, che possono attivarsi automaticamente in caso di pericolo. Non sono fantascienza, ma strumenti concreti per salvare vite.
Dal punto di vista culturale, è indispensabile educare fin dall’infanzia al rispetto, all’empatia, all’uguaglianza. Serve una rivoluzione pedagogica, che coinvolga scuola, famiglie, media e istituzioni religiose. Bisogna estirpare il pregiudizio che vede nella donna una figura subordinata, o che giustifica la violenza con il “troppo amore”. L’amore non uccide. Il possesso sì.
E poi c’è la dimensione collettiva, che ci riguarda tutti. Perché il femminicidio non è un dramma privato, ma un’emergenza sociale. Ogni donna uccisa è una sconfitta per lo Stato, per il diritto, per l’umanità intera. Dobbiamo imparare ad ascoltare, a intervenire, a non voltare lo sguardo. A riconoscere che dietro ogni nome c’è una storia spezzata, dei figli che restano orfani, delle famiglie devastate.
Contrastare il femminicidio significa scegliere da che parte stare: o dalla parte della paura, o da quella del coraggio e della giustizia. Non basta dire “mai più”: bisogna agire perché quel mai più diventi realtà.
E questo dipende non soltanto dall’istituzioni, ma da ciascuno di noi.

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