IL VIAGGIO DELLA SPERANZA, IL MIO NOME È COHILA

di


Tutti sappiamo che alcune persone organizzano e guidano, dietro lauto compenso, viaggi su fatiscenti imbarcazioni, atti al trasporto della povera gente nel Mediterraneo. Questi loschi individui, collusi con criminalità organizzata, vengono chiamati scafisti.
Ogni “viaggio della speranza”, costa seimila euro a testa e, spessissimo, si trasforma in
viaggio della morte.

Il mio nome è Cohila che vuol dire “in silenzio per pene d’amore”.
Vengo dall’Africa occidentale, da un paese chiamato “la dimora degli uomini liberi e
indipendenti”, popolo di cacciatori e raccoglitori di bacche.
Un popolo tra i più poveri del mondo ma, a unirci, sono proprio il disagio, la povertà che ci rende uguali ad assaporare i silenzi infiniti della nostra terra, i suoi tramonti, quel cielo abitato dalle stelle e dalla luna che riflettono limpide, pulite, nitide. Un paese dove il sole abbraccia la terra come una mamma il suo bambino.
E sono tanti, troppi i bimbi che, per questa fottuta guerra che ci vede gli uni contro gli altri, sono privi di beni primari. Traditi dalla vita che come un cannibale affamato, ha divorato affetti che non più torneranno. Le bombe attraversano il cielo improvvisamente cupo, si schiantano sulle case, trascinano e dilaniano corpi già provati dagli stenti. In questa follia ho visti piccoli senza gambe e grandi devastati nel corpo e nello spirito; ho visto mamme consegnare i propri figli a militari in partenza, nell’illusoria speranza di salvar loro un futuro che mai potrà esserci.

Pace! Pace, fa eco il mondo. Parole che volano al vento, trasportate, risucchiate come
foglie ballerine, sbattute di qua e di là e poi di nuovo nel vortice della morte.
Dio solo sa come sono riuscita a scappare da quello che credevo fosse un orrore per
ritrovarmi in un altro forse ancora peggiore.
Pur di mettere in salvo me e mio fratello Uzoma, nove anni appena, i miei genitori avevano dato tutto ciò che possedevano a Yamuro, un cugino di mio padre, uno che, a suo dire, insieme ad altri profughi, mi avrebbe portata in Europa, un paradiso terrestre dove non c’erano né fame, né guerra, dove la libertà rendeva tutti uguali.

Era opportuno che andassimo via e alla svelta, prima che i soldati invadessero il nostro
campo. Tirava voce che le ragazze venivano prima stuprate e poi uccise, sotto gli occhi
dei genitori che, ahimè, non avrebbero tardato a seguire la stessa sorte; i maschi, invece,
arruolati con la forza a combattere gli stessi fratelli.
In un siffatto clima, tutti avevamo paura di tutto… e di tutti, meno che di Yamuro.
“Partiremo stanotte. Fra tre mesi, verrò a prendere i tuoi genitori”.
“La verità è che, malgrado le difficoltà insormontabili, tutti noi aspettiamo sempre che ci
succeda qualcosa di straordinario”.
Abbandonai la “madre patria” portandomi addosso le lacrime di mia madre. Dopo avermi
infilata al collo una catenina dalla quale non si separava mai, si era portata il viso tra le
mani, forse per non avere la tentazione di fermarmi. Mai come in quel momento, il mio
nome, rispecchiava il mio stato d’animo: soffrivo per amore. Per amore verso i miei, per
Umi che non avevo fatto in tempo a sposare, caduto sotto le macerie della sua casa.
Yamuro ci offriva la libertà. Capii subito che, dietro la facciata del bravo ragazzo, si celava un uomo senza scrupoli; uno che per soldi, avrebbe venduto l’anima al diavolo. E,
probabilmente, gliela aveva venduta davvero.
La spiaggia che ci accolse era quasi nascosta dietro un arco naturale. Una luna piena la
illuminava fortemente per cui si poteva notare una sabbia fine, rossastra, profonda a tratti che rendeva difficile il passaggio.

C’erano altre persone, tante e, tutti, con un’aria triste, dimessa, come sa di chi è condannato a morte, di chi non ha scelta: restare e morire o andare via e morire lo stesso. O forse salvarsi, tanto valeva provarci.
Yamuro cambiò atteggiamento: da gentile e premuroso che mostrava di essere al nostro
paese, diventò aspro e saccente. Altri due dalle facce cattive, gli davano man forte. Erano
nervosi, andavano su e giù, fino a che non sentimmo il rumore di un motore:
un’imbarcazione fatiscente e troppo piccola per sostenere il peso di tutti noi.
Si levarono bestemmie, urla e spintoni fino a che tutti salimmo. Poi il motore riprese a
ringhiare come un cane dietro al cancello e ci imbarcammo verso il viaggio della speranza.
Speranza di cosa? Le persone che avrebbero dovuto prendersi cura di noi, gettata la
maschera, divennero i nostri aguzzini.
Occupavano l’imbarcazione soprattutto donne e ragazzi, gli uomini adulti erano una
minoranza.
Qualche donna era incinta, qualche altra teneva stretto il proprio bambino cantando
sottovoce una nenia o attaccandolo al seno sterile per la troppa fame.
Si dice che la guerra sia la più grande vittoria di Satana. Ma, a quanto pareva, Satana era
anche in mezzo a noi e aveva la faccia dei nostri aguzzini, i smugglers, i trafficanti, gli
scafisti.
Credevamo di esserci lasciati la guerra alle spalle e la ritrovavamo in mezzo al mare.
Quel che successe, è difficile da raccontare. A volte mi chiedo se quell’inferno l’ho vissuto realmente o se invece è frutto della mia mente improvvisamente impazzita che crea indelebili scene apocalittiche.
A un certo punto, Yamuro e la sua combriccola, si erano accorti che l’imbarcazione non
avrebbe potuto reggere così tante persone, per cui era necessario sacrificarne alcune.
I trafficanti avevano preso posto a prua, comodamente seduti bevevano birra e fumavano un’erba che ricordava gomme bruciate. Ridevano, si strattonavano amichevolmente e, a bella posta, sembravano indecisi su chi buttare a mare.
Qualcuno implorava pietà, altri urlavano in preda al panico e altri, come me, erano
impietriti per lo stupore. Non poteva essere vero! Poi lo sguardo di uno degli scafisti si
posò su mio fratello. “Cominciamo da questo coniglio, guardate come trema!” Mi
aggrappai a Uzoma con tutte le mie forze; nel tentativo di salvarlo, gli conficcai le unghie
nella carne ma fu tutto inutile: venne scaraventato in mare tra i sogghigni dei luridi
assassini. Poi fu la volta di due donne incinte, di una mamma col bambino e di tre
ragazzini che, per farsi forza, si tenevano stretti stretti.
Urlai, supplicai, implorai clemenza. Lasciammo quelle vite in fondo al mare, in pasto ai
pesci.
Il dolore devastante, mi fece desiderare di morire. Ero pronta a seguire mio fratello e
volontariamente ma una mano afferrò il mio braccio. Fui scaraventata a terra, violentata a turno sotto gli occhi di tutti. Stessa sorte per altre ragazze.
Avevo sognato la mia prima volta come un momento magico, da offrire all’uomo che
avrebbe unito la sua vita alla mia, per sempre! E invece giacevo in mezzo al mare in un
lago di sangue.
Poi si udirono delle sirene, partì qualche colpo di pistola… non ricordo molto, ero come in trance.
Speravo fosse un incubo, mi auguravo di svegliarmi nel mio letto, a casa mia.
I volontari che ci salvarono, si presero cura di me, delle mie ferite fisiche. Quelle
morali, si sono erette fedeli compagne a vita.
Dei miei non ho notizia. Non so se augurare loro la morte come antidoto alla sofferenza.
Dopo l’angoscia iniziale, ho cercato di farmi strada nella società che mi ospita. Ce l’ho
fatta ad avere un presente.
E questo presente, mi fa combattere per un mondo senza guerre, lutti, miseria. La mia
voce parla per chi non ce l’ha, per quelli invisibili.
Mi fa essere promulgatrice d’Amore, ambasciatrice di Pace.