Leopardi è stato affrontato dalla critica in lungo e in largo, molte pagine sono state scritte sulla sua opera, di alcuni aspetti si può però ancora dire qualcosa, come il rapporto con gli astri, la fuga dalla Terra e il ruolo della poesia astrale nella sua opera. È opportuno far originare la presente indagine da un passo dei Ricordi d’infanzia e di adolescenza. In questa sede il Poeta fece una considerazione relativa alla nullità dell’uomo rispetto ai tanti mondi dell’universo: «mie considerazioni sulla pluralità dei mondi e il niente di noi e di questa terra e sulla grandezza e la forza della natura che noi misuriamo coi torrenti ec»1. Queste sono le riflessioni che poi verranno riprese e approfondite nello Zibaldone: «Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, né l’altezza e nobiltà dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli, considerando la pluralità de’ mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch’è minima parte d’uno degli infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero della immensità delle cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale rinchiusa in sì piccolo e menomo essere, è potuta pervenire a conoscere e intender cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e contener col pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose»2.
La riflessione sull’uomo al cospetto dell’infinità spaziale si infuoca, però, nelle composizioni poetiche. Nel Canto notturno il pastore, il quale incarna tutta la limitatezza insita nell’uomo, al cospetto delle stelle si chiede quale sia il ruolo di queste e della solitudine umana e terrena. Il pastore non riesce a comprendere lo scopo di tanti movimenti, di lunghissimi giri per poi tornare sempre alla posizione di partenza. Secondo lui solo la luna, alla quale rivolge tutti i suoi quesiti, conosce realmente le risposte di tali interrogativi:
«Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
Infinito Seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell’innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D’ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto» (vv. 79-89).
Il binomio tra infinitezza dell’universo e piccolezza della Terra e dell’uomo è una costante dell’opera leopardiana. Tale rapporto è pienamente riscontrabile anche nella Ginestra. In questo caso però la cena descritta ha un respiro molto più ampio, poiché la sezione dedicata alle stelle celesti si dilata dal loro bagliore sino all’orizzonte:
«Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch’a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L’uomo non pur, ma questo
Globo ove l’uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz’alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle» (vv. 158-180).
Per questi versi risulta opportuno parlare di poesia astrale, poiché l’ottica si sposta dalla Terra alle stelle, la prospettiva, non più terrestre, come in Kafka per l’uomo, stravolge completamente il senso della riflessione.
1 G. Leopardi, Ricordi d’infanzia e di adolescenza, in G. Leopardi, Tutte le opere, introduzione e curatela di W. Binni e E. Ghidetti, Firenze, Sansoni, 1976, pp. 360.
2 G. Leopardi, Zlibaldone di pensieri. a cura di Fiorenza Ceragioii e Monica Ballerini, Bologna, Zanichelli, 2009, pp. 3171-3172.