La vita è un sogno e questo sognare è innato
Lui è Giuseppe Mascolo ma per tutti è Peppe o Peppino, l’amico disponibile.
I suoi modi garbati, non tradiscono un’infanzia di stenti e sacrifici, rinunce, povertà.

Le immagini di undici figli, avevano finalmente squarciato quel “velo di Maya” che aveva nascosto la realtà delle cose e faceva suo il pensiero di Arthur Schopenhauer: “La vita è un sogno e questo sognare è innato”. Stava finalmente strappando via questo velo che, in antichità, serviva come protezione dalla sabbia, dal vento, dalla polvere. Lui l’aveva indossato metaforicamente per proteggersi dalle ferite, alcune cicatrizzatesi, altre in via di guarigione, altre ancora aperte.
Una famiglia numerosa di una volta dove, nella stessa casa, vivevano assieme più generazioni, anche bisnonni e trisnonni. Man mano i figli si sposavano generando altri figli e la famiglia diveniva sempre più numerosa e ci si stringeva a tavola, ci si stringeva nei letti accatastati nell’unica stanza di un basso senza luce, dove perfino i raggi del sole fanno fatica a infiltrarsi e trovare un varco tra gli infissi fatiscenti e un pavimento in pietra che vibra al passaggio di un piede. E, di piedi, doveva sopportarne tanti. Troppi. Quei piedi che rappresentano il nostro contatto con la terra, il nostro radicamento nella realtà e la nostra stabilità emotiva. Quei piedi che riflettono il modo in cui camminiamo nella vita e affrontiamo il nostro percorso personale.
Un cammino nato in un quartiere di Napoli, multietnico e popolare: Secondigliano, un antico casale rurale. La piccola e modesta casa di Giuseppe Peppe o Peppino, era ubicata in via Regina Margherita, così battezzata in onore alla figlia di Ferdinando di Savoia, duca di Genova e moglie di Umberto di Savoia dal milleottocento sessantotto.
Nel suo immaginario di bambino, si sentiva fiero di abitare in un luogo che ricordava il nome della sovrana; gli sembrava un privilegio, quasi come se gli occhi della regina potessero, in qualche modo, seguire il suo percorso. Si raccontava che, nel giugno del milleottocento ottantanove, il cuoco Raffaele Esposito della pizzeria Brandi, fosse stato convocato alla Reggia di Capodimonte per cucinare tre pizze su invito della Regina d’Italia, la quale, apprezzò molto quella con pomodoro, mozzarella e basilico. Rosso, bianco, verde, i colori della bandiera italiana. Fu naturale darle il nome di pizza Margherita.
Viveva, quindi, di una sorta di amore riflesso. Era come cibarsi di un quadro, di una scultura, di un qualcosa che catturi, che allontani le brutture della vita. E, quel quartiere, brutture ne presentava tante. Inizialmente nato per essere sede di un carcere e di diverse zone popolari, una colata di cemento che vide la nascita delle Case Celesti e del rione dei Fiori, tristemente noto come “terzo mondo”.
Qual era il suo contesto? Il secondo di undici figli di una famiglia, il gruppo sociale in cui era nato e cresciuto, la comunità nella quale divideva i pasti, il posto in cui dormiva. Ma, la famiglia, dev’essere sana. Ha bisogno di un’organizzazione gerarchica con confini chiari tra le generazioni. Ha bisogno di una chiara ma flessibile definizione dei ruoli, di un equilibrio tra intimità e distanza tra ciascun individuo. La sua era un’accozzaglia di persone che sbarcavano il lunario, facendo attenzione a non alimentare le file dei clan camorristici, delle organizzazioni criminali coinvolte in attività come il traffico di droga, l’estorsione, l’omicidio. Erano in cerca di manovalanza, di poveri disgraziati da usare come carne da macello. Nascevano clan di minorenni, leader della “paranza dei bambini”, assoldati per pochi spiccioli, nutriti dagli avanzi di gente senza Dio e dignità, avallati dal tacito consenso di madri e padri. Erano i figli della povertà, accecati e resi brutti da una fantomatica ascesa al benessere e morti prima ancora di diventare adulti. Morti con addosso l’odore nauseabondo di muffa, simile a quello del bucato bagnato dimenticato da giorni; con l’odore di piscio sui pantaloni intrisi di sangue, delle lacrime mute, sconfessate da “bambini uomini” fragili, bisognosi di affetto e vicinanza. Di figli non amati da nessuno e, quel silenzio assordante, rimbomba ancora nella testa, nonostante l’età avanzata perché i figli non amati, sono cieli senza stelle e giornate uggiose, sono melodie soffocate, sono boschi senza sentieri e, quel che più è complesso da vincere, è che sono soli, sono soli al mondo pur non essendo orfani.
Giuseppe Peppe o Peppino, ha scelto di farcela, di uscire dalla “quadara” (pentolone grande di rame a fondo concavo) senza sporcarsi, diventando un pasticcere, un artista pasticcere, un pastry chef, creando dolci non solo con maestria tecnica e sapori eccezionali, ma anche con un’attenzione artistica all’estetica, trasformando ogni creazione in un’opera d’arte.
Il nostro amico, lo si può trovare, nel suo laboratorio, a qualsiasi ora del giorno e della notte nel luogo in cui ha scelto di vivere: Palinuro, un paesino del salernitano protetto da verdi colline di ulivi e attraversato dai fiumi Lambro e Mingardo, arroccato tra mare cristallino e grotte “spose” alla “Primula auricola”, pianta unica e affascinante, dal colore giallo intenso e foglie verde scuro, capace di resistere al clima avverso e al vento salmastro… come Giuseppe Peppe o Peppino.

















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