VERSO UN CARCERE EUROPEO
Già nei primi anni del Novecento, Filippo Turati, nel suo discorso alla Camera del 18 marzo 1904 dopo un periodo di reclusione seguito ai moti del 1896, definiva le carceri italiane “fabbriche di delinquenti” e “scuole di perfezionamento dei malfattori”. Egli sosteneva che la conoscenza reale del mondo carcerario non potesse avvenire senza esperienza diretta, poiché nessuno sa davvero cosa accade dentro quei “cimiteri dei vivi”, come li definiva. Queste parole, ancora oggi attuali, sottolineano come la situazione carceraria sia rimasta sostanzialmente invariata nonostante il tempo trascorso e le numerose riforme avviate.
Nel 1954 venne istituita la Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo, poi sostituita nel 1998 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU). Nonostante queste istituzioni abbiano avuto un ruolo importante nella tutela dei diritti umani, le condanne inflitte all’Italia per violazioni dell’articolo 3 della CEDU (che vieta tortura e trattamenti disumani o degradanti) non hanno condotto a miglioramenti significativi. Due casi emblematici sono Sulejmanovic vs. Italia (2009), in cui la Corte ha condannato l’Italia per sovraffollamento carcerario, e Torreggiani vs. Italia, una sentenza pilota che ha accomunato sette ricorsi relativi a condizioni detentive inadeguate tra il 2009 e il 2010.
Nel frattempo, anche altri paesi europei si trovano ad affrontare problemi simili. In questo contesto di criticità generalizzata si inserisce l’idea di un carcere europeo, proposta nel 2020 dal Comune di Gorizia — città di confine e crocevia culturale — insieme a dr. Enrico Sbriglia, esperto in ambito penitenziario. L’obiettivo è creare un istituto moderno e rispettoso della dignità umana, un progetto pilota che possa coinvolgere esperti europei e fungere da laboratorio per una nuova concezione del carcere: non solo luogo di detenzione, ma ambiente di cura, riabilitazione e reinserimento sociale.
Nel 2023, il Parlamento Europeo ha pubblicato uno studio approfondito, commissionato dalla Commissione LIBE (Libertà civili, giustizia e affari interni), sulle condizioni di detenzione nell’UE. Il documento evidenzia una diffusa violazione dei diritti umani nelle carceri degli Stati membri, con implicazioni anche sulla cooperazione giudiziaria penale: le attive condizioni detentive, infatti, costituiscono motivo di ritardi o rifiuti nell’esecuzione dei mandati d’arresto europei (MAE).
A tal riguardo, la Raccomandazione UE 2023/681 fissa tre principi fondamentali per gli Stati membri:
1. L’uso della custodia cautelare come misura di ultima istanza;
2. Il reinserimento sociale dei detenuti per prevenire recidive;
3. L’uguaglianza di trattamento, indipendentemente da genere, etnia, età o altre caratteristiche.
Il documento sottolinea come, tra il 2016 e il 2019, oltre 300 casi di mancata o ritardata esecuzione del MAE siano stati motivati da condizioni carcerarie ritenute inadeguate, confermando così il divario tra le intenzioni normative europee e le prassi dei singoli Stati. Anche se vi è un avvicinamento giurisprudenziale tra la Corte EDU e la Corte di Giustizia dell’UE (CGUE), il recepimento delle raccomandazioni rimane incerto.
Un carcere europeo potrebbe quindi servire da esempio concreto per armonizzare standard minimi tra gli Stati, in particolare per detenuti sottoposti a custodia cautelare o condannati per reati di natura transnazionale. In questo senso, il dr. Sbriglia propone un’istituzione penitenziaria innovativa che raccolga persone ritenute socialmente pericolose ma nel rispetto dei loro diritti fondamentali.
A rafforzare la proposta, l’EUROPOL ha pubblicato ad aprile 2024 una Valutazione della minaccia della criminalità economica e finanziaria in Europa, evidenziando la crescente incidenza di tali reati, favoriti da tecnologie avanzate e instabilità geopolitica. Le organizzazioni criminali mostrano competenze elevate in campo finanziario e agiscono con sofisticate strategie di manipolazione. Questo tipo di criminalità, in forte espansione, richiede risposte penali adeguate, ma anche misure rieducative efficaci per evitare recidive.
Un aspetto cruciale in quest’ottica è il lavoro penitenziario, considerato elemento cardine della rieducazione. L’articolo 21 dell’Ordinamento Penitenziario stabilisce che l’amministrazione deve garantire lavoro adeguato ai detenuti, sia all’interno che all’esterno degli istituti. Tuttavia, i dati forniti dal DAP nel 2023 rivelano una realtà insoddisfacente: solo 3.029 detenuti, pari a circa il 5%, lavorano alle dipendenze di datori esterni, una percentuale troppo bassa per rispondere ai bisogni economici e psicologici della popolazione carceraria.
La Legge Smuraglia (193/2000), nata per incentivare l’occupazione dei detenuti tramite crediti d’imposta per i datori di lavoro, non ha avuto il successo auspicato. Al 31 dicembre 2023, i detenuti lavoranti risultano essere 20.071 su una popolazione penitenziaria di 60.166, cioè solo il 33,36%. Di questi, 17.042 lavorano per l’amministrazione penitenziaria e solo 3.029 per datori esterni. A confronto, nel 1999 la percentuale era del 22,97%: un incremento minimo in oltre vent’anni, che dimostra come la legge Smuraglia non sia mai stata pienamente applicata a causa della mancanza di risorse e volontà politica, come evidenziato anche dal XVIII Rapporto Antigone.
In conclusione, il sistema penitenziario europeo — e in particolare quello italiano — continua a presentare gravi criticità, nonostante le numerose condanne, raccomandazioni e proposte riformatrici. Il carcere europeo proposto da Gorizia può rappresentare una vera innovazione nel panorama giuridico e sociale: un’istituzione modello in cui i principi della dignità umana, della rieducazione e della legalità possano trovare piena attuazione, in un’ottica sovranazionale. Per riuscirci, però, è necessario un cambiamento culturale profondo, un investimento politico deciso e una volontà comune tra i paesi membri dell’UE di rendere le carceri non solo luoghi di pena, ma di reale trasformazione individuale.

