«Ne combino di tutti i colori perché ho un preciso scopo da raggiungere:
quando morirò voglio andarmene all’Inferno, non in Paradiso.
Il diavolo ha merce migliore da proporre!
Dio non può offrire altro che musica pallosa e suore…»
(Liam Gallagher)
Chissà se, quando sarà il momento e per il solo gusto di fargli un dispetto, Dio non manderà in Paradiso il bizzoso Liam, arcinoto cantante e protagonista insieme al fratello Noel della saga Gallagher/Oasis, una delle rock band più celebrate degli anni Novanta. Certamente sarà un po’ meno facile che San Pietro apra le ambite porte per Andrea Volpe, di cui è appena arrivato sugli scaffali un libro-intervista curato da Gianluca Herold (Il più bel trucco del diavolo, Rizzoli, 336 pagine), che costituisce l’indizio di questo sulfureo intervento. Chi è costui? Andrea Volpe di anni 48, per chi non lo ricordasse, è uno dei personaggi più noti e controversi legati al caso delle Bestie di Satana, episodio di cronaca nera tra i più inquietanti e romanzati degli ultimi decenni. Siamo sul finire dello scorso millennio, provincia agra di Varese; Volpe e un gruppetto di amici più o meno ventenni (Paolo Leoni, Nicola Sapone, Marco Zampollo, Elisabetta Ballarin, Mario Maccione, Eros Monterosso) sono i membri di vecchia data di una sedicente setta che si ispira al cosiddetto “satanismo acido”, ma più che altro una cricca di sbandati dedita all’uso di sostanze stupefacenti di ogni tipo, che si ritrova abitualmente tra il Parco Sempione e la Fiera di Sinigallia a Milano. Lo sfoggio di simboli esoterici, pentacoli, croci rovesciate non sono certamente l’armamentario di giovani studiosi appassionati dell’Apocalisse di Giovanni, ma il corredo estetico di alcuni sottogeneri particolarmente estremi della musica metal, di cui i nostri sono seguaci. I riti di affiliazione alle Bestie di Satana prevedevano il superamento di prove di coraggio assai cruente, suggellate da un patto di sangue incorruttibile e apparentemente fantasioso: si sarebbe potuti uscire dal gruppo solamente da morti.
La storia criminale e giudiziaria della sedicente setta è lunga e intricata, quasi filmica, piena di colpi di scena, confessioni e ritrattazioni, qualche risvolto oggettivamente oscuro, ed è stata ampiamente seguita e documentata anche fuori dai confini nazionali. In breve, il velo si dissolve nel 2004 durante le indagini sull’omicidio di Mariangela Pezzotta, ex fidanzata di Volpe, uccisa da quest’ultimo in concorso con la nuova compagna Elisabetta Ballarin e Nicola Sapone perché sapeva troppe cose della scomparsa di Fabio Tollis e Chiara Marino, assassinati brutalmente dal gruppo nel 1998 e fatti ritrovare su indicazione di Volpe proprio durante il caso Pezzotta. La quarta vittima accertata fu Andrea Bontade, indotto al suicidio dopo essere stato riempito di alcol e droghe per non essersi presentato la sera del duplice omicidio Tollis-Marino, ma ci furono sospetti sulle Bestie rispetto ad altri diciotto delitti tra omicidi, suicidi inspiegabili e persone scomparse e mai ritrovate, anche se il coinvolgimento non è mai stato dimostrato in sede processuale, quando lo stesso Maccione accusò pubblicamente alcuni degli altri membri.
Una brutta storia, sordida e dolorosa, che tutto sommato c’entra ben poco col satanismo e la cultura esoterica, un po’ di più con la droga, la psichiatria e il disagio di una certa provincia nebbiosa e addormentata, al punto che la stessa Maria Greca Zoncu, GUP di Busto Arsizio, dichiarò che le Bestie di Satana «non erano un’associazione per delinquere ispirata al satanismo, ma solo un’aggregazione di personalità deboli, immature, ineducate, sostanzialmente svantaggiate, che hanno costruito un maldestro edificio nel quale albergare la loro assoluta povertà morale» (Bestie di Satana? No! Solo un mucchio assassino, www.misteriditalia.it). Un gruppo di giovani confusi e violenti, che dallo storico Midnight Pub di Via Altaguardia a Milano fecero qualche passo di troppo verso il baratro, probabilmente soggiogati dalla personalità perversa di alcuni che riuscivano a esercitare un forte condizionamento sulle dinamiche relazionali, soprattutto Volpe, Sapone e Leoni.
Una storia che riesce ad appassionare, tuttavia, e che offre un’occasione per tornare su alcuni contributi scientifici e culturali osteggiati dall’insigne sinedrio delle soporifere accademie alle vongole in quanto “avversi alla deontologia della ricerca”, qualunque cosa voglia dire. Nel 1961 lo psicologo sociale Stanley Milgram – probabilmente più conosciuto al pubblico per la teoria dei sei gradi di separazione – condusse un esperimento sull’obbedienza all’autorità per analizzare il comportamento di soggetti indotti a compiere azioni contrarie ai propri orientamenti valoriali. In estrema sintesi (per i dovuti dettagli si veda Obedience to Authority; An Experimental View, Harpercollins, 1974), vennero creati due gruppi distinti, quello degli “insegnanti” (gruppo sperimentale, ignaro delle regole) e quello degli “allievi” (gruppo di controllo, composto da complici). Gli insegnanti avevano il compito di sottoporre agli allievi alcuni quesiti basati su associazioni di parole e, nel caso in cui la risposta fosse sbagliata, infliggere una punizione che consisteva in una scossa elettrica crescente ad ogni errore successivo; gli allievi, che ovviamente non ricevevano alcuna scossa, dovevano fingere reazioni sempre più preoccupanti fino a simulare svenimenti una volta raggiunta la scossa di 330V, potenzialmente letale, collegata al trentesimo interruttore. Lo sperimentatore, che nel setting rappresentava l’autorità scientifica, aveva il compito, durante la prova, di esortare in modo pressante l’insegnante: «l’esperimento richiede che lei continui», «è assolutamente indispensabile che lei continui», «non ha altra scelta, deve proseguire». Il grado di obbedienza veniva misurato in base al numero progressivo dell’ultimo interruttore premuto dagli insegnanti, che vennero informati della inoffensività delle scosse solamente al termine dell’esperimento. I risultati furono sbalorditivi: la maggior parte dei soggetti obbedì allo sperimentatore violando le proprie convinzioni etiche, e Milgram definì questa condizione come “stato eteronomico”, una sorta di delega morale verso una figura autoritaria considerata legittima, che impedisce di agire autonomamente e deresponsabilizza le proprie azioni anche se crudeli e violente («sto solamente eseguendo degli ordini»). Percezione e adesione al sistema di autorità, unitamente alle pressioni sociali, concorrono secondo Milgram alla “ridefinizione del significato della situazione”, in quanto ogni situazione è caratterizzata da una sua ideologia che definisce e giustifica gli eventi che vi accadono, determina quali norme siano pertinenti al contesto e può condurre un soggetto a ridefinire un’azione distruttiva non solo come ragionevole, ma addirittura necessaria, definendo sé stesso come “agente” della volontà di qualcun altro.
Esattamente dieci anni più tardi, nel 1971, una equipe coordinata da Philip Zimbardo – che ho avuto il privilegio di conoscere e ha lasciato questo cielo lo scorso 14 ottobre – condusse un celebre esperimento di psicologia sociale dei gruppi conosciuto come “Esperimento carcerario di Stanford”. Partendo dalla teoria della deindividuazione di Gustave Le Bon, Zimbardo tentò di estendere le conclusioni di Milgram dal livello della risposta soggettiva (“stato d’agente”) a quello del gruppo di appartenenza in cui – date specifiche condizioni di stress, pressione e suggestione – le persone tendono a perdere identità, consapevolezza e responsabilità, assumendo impulsi antisociali. In questo caso fu allestito un ambiente simile a un carcere e selezionati due gruppi, guardie e detenuti, entrambi composti da soggetti equilibrati e maturi, lasciando alle guardie ampia discrezionalità rispetto ai metodi adottati nel mantenimento dell’ordine. Lo svolgimento del panel costrinse i ricercatori a sospendere l’esperimento dopo soli cinque giorni: dopo due giorni avvennero i primi episodi di violenza, le guardie iniziarono a intimidire i detenuti, costringendoli a compiere azioni oscene e degradanti, finché questi mostrarono sintomi di disgregazione individuale e gruppale, passività e remissività, con un rapporto compromesso con la realtà, mentre le guardie diventavano sempre più sadiche e vessatorie. Zimbardo sostenne che nell’esperienza dei gruppi sperimentali la prigione finta era diventata vera e che i fattori ambientali e sociali, fino a quel momento ampiamente sottovalutati negli studi sull’aggressività, sono determinanti nella genesi delle condotte violente, non meno dei fattori interni: a questo processo attribuì il nome “Effetto Lucifero” (L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa? Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008).
Nel frattempo, Andrea Volpe ha conosciuto l’amore, pare quello vero, l’amore di un uomo («il mio primo uomo»), che a quanto apprendiamo non ne avrebbe ancora per molto a causa dell’Hiv in fase avanzata. C’è da fare i conti con i demoni, quelli veri stavolta, che con le Bestie c’entrano poco o nulla: «Non potrei farlo. Non per i riti, il diavolo, o i tatuaggi, che ho deciso di non togliere proprio perché sarebbe ingiusto cancellare. Eravamo quattro scavazzati, altro che 666 e tutto il resto. Mi fa ridere oggi quella roba. Eravamo scemi che tragicamente hanno ucciso, ed è una cosa troppo grande, che non puoi rimuovere. Sarebbe pericolosissimo. Potrei ricaderci. Il riscatto è un percorso, la possibilità te la devi guadagnare, non puoi cedere. Ho un traguardo davanti: una vita normalissima […] Ma per quello che ho fatto in pace non sarò mai. Ed è giusto così.» (Massimo Pisa, il venerdì, 1° novembre 2024).
Sì, probabilmente è giusto così: il diavolo non gioca mai da solo, e ti aspetta all’Inferno insieme a Liam.