Tra psicologia, criminologia e strategie di contrasto

L’hate speech online è un fenomeno complesso che intreccia dinamiche psicologiche individuali con potenti influenze sociali. Si manifesta per mezzo di un linguaggio intriso di violenza verbale.

Alla base dell’hate speech online troviamo meccanismi, perfettamente indicati dalla teoria dell’identità sociale di Tajfel e Turner che evidenzia come il bisogno di appartenenza a un gruppo (“ingroup”) possa portare alla svalutazione e alla discriminazione di altri gruppi (“outgroup”). Online, l’anonimato e la deindividuazione tipiche degli ambienti digitali possono esacerbare questo meccanismo, riducendo i freni inibitori e facilitando l’espressione di pregiudizi latenti.

La teoria della frustrazione scaricata attraverso l’aggressività ben declinata da Dollard e colleghi, suggerisce come la frustrazione derivante da deprivazione relativa, insuccessi personali o ansie sociali possa essere reindirizzata verso gruppi minoritari percepiti come “capri espiatori”. L’ambiente online offre un palcoscenico dove questa aggressività può trovare sfogo attraverso messaggi carichi di odio. Inoltre, il bisogno di autostima, può essere paradossalmente soddisfatto attraverso la denigrazione altrui. Sentirsi superiori a un “outgroup”, percepito come inferiore, può temporaneamente innalzare il proprio senso di valore. Questo meccanismo è spesso amplificato dalle dinamiche di gruppo online, dove l’adesione a comunità che condividono messaggi d’odio può rafforzare l’identità individuale e il senso di appartenenza.

L’odio online si manifesta attraverso specifiche strategie linguistiche e comunicative, ognuna con un preciso intento manipolatorio. Innanzitutto, troviamo la deumanizzazione, un meccanismo di disimpegno morale che equipara persone o interi gruppi a bestie, negando loro la dignità umana e preparando il terreno per accettare, persino giustificare, la violenza contro di essi. Seguono la stereotipizzazione e la generalizzazione, utilizzati per attribuire tratti negativi a un intero gruppo basandosi su un singolo individuo o su episodi isolati, semplificando una realtà ben più complessa e radicando pregiudizi spesso infondati.

Un’altra tattica è la polarizzazione e l’uso di un linguaggio divisivo, che erige muri verbali tra un “noi”, il gruppo di appartenenza, e un “loro”. L’altro viene percepito come minaccia con la funzione di esacerbare l’ostilità e alimentare la paura. Non mancano poi le minacce e l’incitamento alla violenza per mezzo di messaggi che, apertamente o velatamente, mettono a rischio l’integrità fisica, la sicurezza o i diritti, spingendo altri a compiere atti aggressivi.

Un elemento centrale è l’uso di insulti ed epiteti denigratori, termini carichi di storia e di negatività, scelti appositamente per umiliare e sminuire l’altro. Infine, un meccanismo più subdolo è il “dog whistling”, un linguaggio apparentemente innocuo che, tuttavia, contiene messaggi nascosti e significati specifici comprensibili solo a determinati gruppi che condividono un certo codice ideologico.

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