*nella foto la famigerata “Manson Family”, comunità e setta criminale
Dietro l’eco inquietante di atti violenti che si propagano come onde, si cela un complesso intreccio di dinamiche psicologiche e sociali: il potere contagioso dell’emulazione criminale. Come psicologa, criminologa forense e analista scientifica del linguaggio non verbale, ho osservato da vicino i meccanismi sottili, ma potenti che spingono individui, talvolta insospettabili, a imitare gesti efferati, creando pericolose spirali di violenza. Comprendere queste dinamiche è cruciale per la criminologia e per sviluppare strategie di prevenzione efficaci.
La teoria di Gustave Le Bon descrive la trasformazione che si verifica quando un considerevole numero di persone si aggrega, dando origine a quella che definiva una “folla psicologica”. In tali contesti, gli individui tendono a mutare radicalmente il proprio modo di pensare e di agire, quasi confluendo in una singola “mente collettiva”. All’interno di questa dinamica, la percezione di sé come individui distinti, dotati di responsabilità personali, si affievolisce a favore di un’identificazione con il gruppo anonimo. La folla non è governata dalla logica, bensì da un’emotività contagiosa che si propaga rapidamente tra i suoi membri. In questo scenario, le idee semplici e impattanti prevalgono sui ragionamenti complessi. La suggestionabilità degli individui aumenta notevolmente, rendendoli particolarmente recettivi a stimoli esterni: la presenza di un leader carismatico o la reiterazione di un concetto incisivo possono facilmente persuadere la massa. Le Bon riteneva che la folla regredisse a una modalità di pensiero elementare e istintiva, paragonabile a forme arcaiche di mentalità, con conseguenti azioni spesso impulsive e fuori misura. L’appartenenza a una folla infonde negli individui un senso di potenza e invulnerabilità, derivante dal sostegno numerico, che può indurli a comportamenti audaci o persino violenti, azioni che individualmente non avrebbero osato intraprendere. La concettualizzazione leboniana della folla psicologica evidenzia la deindividuazione come processo primario, in cui l’individuo all’interno di un aggregato perde la propria identità individuale e il senso di responsabilità, manifestando una maggiore suggestionabilità e una riduzione del controllo cognitivo. Questo fenomeno può estendersi, per analogia, all’influenza esercitata da modelli comportamentali devianti veicolati attraverso i media o sottoculture specifiche, agendo come una “folla virtuale” o un “modello saliente”.
Il processo di emulazione criminale implica un apprendimento sociale vicario, mediato dall’osservazione di comportamenti violenti e delle loro conseguenze percepite (anche in termini di attenzione mediatica o status all’interno di un gruppo). La teoria dell’apprendimento sociale di Bandura sottolinea il ruolo del modeling, dell’imitazione e del rinforzo vicario nello sviluppo di comportamenti aggressivi. L’esposizione a modelli criminali “di successo” (anche se con una definizione distorta del successo) può abbassare le soglie inibitorie e fornire script comportamentali predefiniti.
L’analisi del linguaggio non verbale, in contesti di emulazione, può rivelare dinamiche di identificazione e internalizzazione dei modelli. L’adozione di posture, gesti o microespressioni caratteristiche dell’autore del crimine emulato può suggerire un processo di mimesi comportamentale. Analogamente, l’analisi della prossemica e del contatto oculare può indicare un tentativo di replicare dinamiche interpersonali osservate nel modello. A livello di linguaggio verbale (LV), l’analisi del contenuto (Content Analysis) e l’analisi dello stile (Style Analysis) possono evidenziare l’adozione di frame narrativi, lessico e giustificazioni simili a quelli utilizzati dall’autore del crimine originario. La presenza di script cognitivi predefiniti e la riproposizione di distorsioni cognitive (ad esempio, la deresponsabilizzazione o la colpevolizzazione della vittima) possono indicare un processo di interiorizzazione dei valori e delle credenze associate al comportamento deviante.
Diverse teorie criminologiche offrono spunti per comprendere il fenomeno dell’emulazione. Secondo la Teoria della tensione di Merton, l’imitazione di atti criminali può emergere come una risposta deviante alla frustrazione derivante dalla discrepanza tra gli obiettivi culturali condivisi e la mancanza di mezzi legittimi per raggiungerli. In questo senso, emulare crimini “di successo” può apparire come una scorciatoia per ottenere prestigio o risorse. Un’eco di questa prospettiva si ritrova nella Teoria della scelta razionale, la quale, pur riconoscendo la natura non sempre pienamente logica dell’emulazione, sottolinea come la percezione dei vantaggi (come l’attenzione o lo status) e degli svantaggi (come il rischio di punizione) legati all’atto criminale imitato possa influenzare la decisione di agire. La Teoria del labeling, invece, pone l’accento sul ruolo della stigmatizzazione sociale: l’atto di etichettare individui o gruppi come “criminali” può paradossalmente consolidare la loro identificazione con ruoli devianti, incentivando l’imitazione di comportamenti associati a tale etichetta. Infine, la Teoria delle finestre rotte evidenzia come un ambiente caratterizzato da segni di degrado sociale e criminalità impunita possa generare un clima di permissività, facilitando la riproduzione di comportamenti devianti per effetto dell’emulazione.”
L’emulazione criminale è il risultato di complesse dinamiche psicologiche e sociali, dove l’eco di un atto violento può risuonare pericolosamente nella mente di individui vulnerabili. La sfida per la nostra società è duplice: da un lato, gestire con responsabilità la narrazione mediatica della violenza, evitando la spettacolarizzazione e la creazione di “eroi negativi”; dall’altro, investire nella prevenzione primaria, agendo sui fattori di rischio sociali e psicologici che rendono alcuni individui più vulnerabili al fascino oscuro dell’emulazione.