Quando la violenza diventa quotidianità e l’indifferenza complice
La morte di una giovanissima ragazza ci interroga, ancora una volta, sulle radici profonde della violenza, sulle crepe della nostra società, e su ciò che non stiamo facendo per salvarli – e salvarci.
Aveva solo quattordici anni. Il suo nome si aggiunge a una lista che cresce nell’indifferenza, tra titoli di cronaca rapida e sdegno a scadenza. È morta violentemente, forse per mano di qualcuno che conosceva, forse nel silenzio di un contesto che l’ha lasciata sola. Non c’è bisogno, oggi, di conoscere ogni dettaglio giudiziario per scrivere ciò che conta: un’altra giovanissima è stata uccisa. Ed è questo che deve scuoterci.
Dietro il volto di questa adolescente c’è un Paese intero che fatica a guardarsi allo specchio. Dove l’infanzia e l’adolescenza vengono raccontate ancora come tempi leggeri e spensierati, ma che per troppi minori sono già terreno di abbandono, di solitudini invivibili, di violenza normalizzata.
Quattordici anni. Anni in cui si dovrebbe avere diritto al dubbio, al cambiamento, al conflitto costruttivo. Invece per tante ragazze e ragazzi – soprattutto in contesti fragili, ma non solo – l’unico destino è quello di sopravvivere ogni giorno. Fino a quando non si muore. E allora ci si accorge, tardi, che nessuno ha saputo proteggerli.
Un sistema che non ascolta
Il disagio adolescenziale non esplode mai all’improvviso. Parla, chiede, lancia segnali. Il problema è che gli adulti – genitori, insegnanti, istituzioni, comunità – spesso non ascoltano. O peggio, non vogliono ascoltare. I consultori familiari sono stati smantellati o ridotti a presìdi inefficaci. I servizi sociali sono pochi, stremati e sottofinanziati. Nelle scuole, gli psicologi scolastici sono l’eccezione, non la regola. E il digitale, che dovrebbe essere un’opportunità, diventa spesso lo spazio dove si aggrava l’isolamento e si diffonde la violenza.
La società dello spettacolo, dell’apparire, dell’hype tossico sui social, produce modelli di dominio, sopraffazione, e sessualizzazione precoce. Il corpo femminile continua a essere oggetto e campo di battaglia, e le ragazzine sono le prime a farne le spese, tra giudizi, molestie, abusi e invisibilità.
Dove nasce la violenza?
La violenza non è mai un fatto isolato. È un processo, spesso lento, che si annida nella cultura, nel linguaggio, nella noncuranza. È nella famiglia dove si urla e si insulta. Nelle case dove si picchia. Nei quartieri dove tutto è “normale”. Nelle scuole dove il bullismo è sottovalutato. Nella rete dove l’hate speech cresce indisturbato. Nelle istituzioni che non vedono, o fanno finta di non vedere.
E quando è una ragazza a morire, ci si chiede sempre se “si era messa nei guai”, se “frequentava brutte compagnie”, se “aveva comportamenti provocanti”. Domande che parlano più di noi che di lei. Che raccontano una mentalità che ancora, nel 2025, chiede alla vittima di spiegare perché è diventata vittima.
Educare alla vita, non solo alla sopravvivenza
Non basta più parlare di emergenza. Occorre cambiare paradigma. Servono politiche strutturali di prevenzione, educazione emotiva, affettiva e relazionale sin dalle elementari. Serve formazione per genitori, educatori, giornalisti. Serve che la giustizia agisca, ma anche che la comunità faccia la sua parte. Servono luoghi dove i giovani possano esprimersi, essere ascoltati, riconosciuti.
Soprattutto, serve il coraggio di rimettere al centro la parola cura. Cura dei legami, delle parole, delle presenze. Cura della comunità. Perché ogni morte violenta non è solo un crimine. È una sconfitta collettiva.
Oggi piangiamo una ragazza di 14 anni. Domani forse ne piangeremo un’altra. E un’altra ancora. Finché non inizieremo a chiedere: “Che cosa stiamo facendo, ogni giorno, per evitare che accada di nuovo?”.
E finché la risposta sarà: “Troppo poco”, allora questa società continuerà a morire, un pezzo alla volta. Insieme ai suoi figli più giovani.