La “Cancel Culture” è generalmente definita come un atteggiamento di colpevolizzazione, manifestato prevalentemente attraverso i social media, nei confronti di personaggi pubblici o aziende che avrebbero espresso o compiuto azioni considerate offensive o politicamente scorrette. Questo si traduce nel ritiro del sostegno e del gradimento nei loro confronti. È una pratica di “cancellazione” o boicottaggio di figure pubbliche che hanno sostenuto o espresso opinioni ritenute non condivisibili o offensive da un gruppo dominante. Il fenomeno è descritto come una forma moderna di ostracismo sociale, la cui diffusione è stata notevolmente accelerata e amplificata dall’avvento dei social media. La sua manifestazione può variare da un semplice boicottaggio a un tentativo di silenziare completamente il bersaglio. È importante distinguere la “Cancel Culture” dalla “call-out culture”: mentre quest’ultima mira a richiamare l’attenzione sugli errori per favorire l’apprendimento, la “Cancel Culture” tende a etichettare immediatamente l’individuo come “cattivo”, a volte in modo permanente, senza lasciare spazio a processi di crescita o redenzione. La polisemia e la contestualità del termine indicano una profonda polarizzazione ideologica che incide sulla percezione del fenomeno. La sua definizione varia significativamente, con interpretazioni opposte, da strumento di “accountability” a forma di censura, a seconda dell’orientamento politico. Questa mancanza di neutralità rende il termine un “concetto essenzialmente contestato”, la cui strumentalizzazione politica lo trasforma in una “guerra culturale”, rendendo ardua una riflessione accademica obiettiva.
In origine, “cancellare” era inteso come manifestazione di libero arbitrio: la scelta consapevole di smettere di prestare attenzione a individui o entità i cui valori erano percepiti come offensivi. Tuttavia, l’evoluzione della “Cancel Culture” da una pratica di “disengagement” individuale a una forma di pressione sociale organizzata, con boicottaggi e richieste di licenziamento, riflette una transizione da un controllo individuale dell’attenzione a una forma di azione collettiva con implicazioni significative in termini di potere e responsabilità. Questo passaggio da una scelta individuale a una mobilitazione collettiva suggerisce che il fenomeno ha acquisito una dimensione di potere e coercizione che trascende la semplice espressione del dissenso, trasformandosi in una “sanzione sociale”.
Nonostante la sua pervasività nel dibattito mediatico, la “Cancel Culture” rimane un tema per il quale la riflessione accademica è ancora carente. Alcuni studiosi contestano il valore euristico del sintagma, argomentando che esso tende a semplificare eccessivamente conversazioni complesse, raggruppando sotto un unico termine situazioni disparate. Le critiche accademiche si concentrano spesso sulla sua relazione con concetti come “identity politics”, “intersezionalità” e “politicamente corretto”. Nel panorama accademico, due macro-linee interpretative principali la considerano prevalentemente una costruzione mediatica e politica, un “panico morale” strumentalizzato dalle destre conservatrici, oppure un fenomeno reale, dotato di valenza empirica, che rappresenta un’espressione legittima delle rivendicazioni di minoranze e gruppi storicamente silenziati. La strumentalizzazione politica del termine è palese, con figure pubbliche che lo impiegano per delegittimare le critiche. La contesa sulla “consistenza empirica” della “Cancel Culture” non è solo un dibattito metodologico, ma un riflesso della “guerra culturale” in atto, in cui il termine stesso è diventato un’arma retorica.
Per comprendere appieno la “Cancel Culture”, è essenziale collocarla nel contesto più ampio delle pratiche di esclusione sociale. È frequentemente paragonata a forme storiche di ostracismo e damnatio memoriae. Esempi come la damnatio memoriae romana o le “liste nere” di Hollywood rappresentano processi di “cancellazione” imposti “dall’alto verso il basso”. Tuttavia, la moderna “Cancel Culture” si distingue per la sua origine “dal basso” (grassroots), focalizzandosi sull’economia dell’attenzione, dove le comunità esercitano il proprio potere ritirando il supporto. Sebbene condivida con la damnatio memoriae l’obiettivo di “cancellare” o marginalizzare individui, la differenza cruciale nelle dinamiche di potere implica una diversa distribuzione della responsabilità e, soprattutto, della capacità di redenzione. La versione moderna tende a offrire meno spazio per il perdono e la crescita personale.
La “Cancel Culture” opera come una forma di sanzione sociale, in cui azioni o atteggiamenti che si discostano dalle norme sociali stabilite possono incorrere in disapprovazione, condanna o discriminazione. Storicamente, le sanzioni sociali hanno svolto un ruolo significativo nel disincentivare comportamenti devianti. La loro efficacia è spesso correlata alla percezione di ingiustizia da parte della vittima e alla disponibilità di alternative relazionali per l’individuo ostracizzato. La “Cancel Culture” può essere interpretata come un tentativo di applicare sanzioni sociali informali in un contesto digitale. Tuttavia, la sua rapidità e pervasività la rendono qualitativamente distinta dalle sanzioni storiche, introducendo un rischio maggiore di sproporzione e irreversibilità. L’assenza di un processo formale o di un “diritto alla difesa” rende estremamente difficile per i bersagli reagire o intraprendere un percorso di redenzione. La “Cancel Culture” è così strettamente associata al concetto di “gogna mediatica”, descritta come un “linciaggio” mediatico al quale è estremamente difficile opporsi. Questa dinamica richiama i “due minuti di odio” di George Orwell. La gogna pubblica è un potente meccanismo per far rispettare le norme sociali, attraverso l’esclusione o l’emarginazione degli individui che deviano. Le conseguenze per il bersaglio includono “umiliazioni pubbliche” e un clima di “intolleranza”, con un impatto significativo sulla reputazione e sulla visibilità. La “gogna mediatica” digitale, pur potendo originare da un desiderio di giustizia, rischia di degenerare in una forma di “bullismo di branco” che, anziché promuovere la responsabilizzazione, soffoca il dibattito e la libertà di espressione attraverso la paura e l’autocensura.
La “Cancel Culture” può degenerare rapidamente in una “mob mentality” (mentalità di massa), dove il giudizio individuale viene soppiantato da reazioni emotive collettive e spesso irrazionali. L’indignazione si propaga con estrema velocità sui social media, mobilitando gli utenti a condividere post e hashtag che intensificano il contraccolpo pubblico. In tali ambienti, le voci dissenzienti sono frequentemente soffocate, rendendo difficile l’emergere di discussioni sfumate. La partecipazione alla “Cancel Culture” può emergere come una piattaforma alternativa per la ricerca di giustizia e per la manifestazione di lamentele, in particolare quando i sistemi giudiziari tradizionali non riescono a rispondere adeguatamente alle preoccupazioni dei gruppi marginalizzati. Da questa prospettiva, è interpretata come un richiamo all’“accountability”.  La partecipazione può essere motivata dal fenomeno del “virtue signaling”, ovvero la dimostrazione pubblica della propria moralità o del proprio allineamento con valori socialmente approvati. Il bisogno intrinseco di appartenenza e la pressione dei pari possono spingere gli individui a unirsi al “carro del vincitore” (il “bandwagon effect”), contribuendo a un movimento o a un trend per conformarsi alle aspettative del proprio gruppo di riferimento. L’attivismo online, lungi dal sostituire le forme tradizionali di protesta, si aggiunge ad esse, creando una realtà “aumentata”.
Gli algoritmi contribuiscono alla formazione di “camere d’eco” (o “echo chambers”), ambienti virtuali in cui il confronto con l’Altro viene vanificato. All’interno di queste “camere d’eco”, le voci dissenzienti sono spesso soffocate, e il pensiero critico è ostacolato dalla pressione alla conformità. La “Cancel Culture” può inoltre portare alla “cancellazione delle informazioni” relative al soggetto bersaglio dai risultati dei motori di ricerca e dai contenuti sui social media. La capacità delle piattaforme di raccogliere e analizzare i dati degli utenti consente di isolare psicometricamente il “tipo” di individuo (User Profile Information, UPI), influenzando la fruizione dei contenuti e personalizzando l’esperienza in modi che possono limitare l’esposizione a prospettive diverse.

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