Nelle notizie di oggi, una frase comune è: “Se sanguina, conduce”. In altre parole, le notizie violente spesso diventano le notizie principali. La violenza è un tema comune nei media, non solo nelle notizie, ma anche nei media di fantasia. Teoricamente, le persone immerse nei media violenti dovrebbero arrivare a vedere il mondo come un luogo ostile.
Nelle relazioni personali reali c’è una stretta connessione tra azione e risultato, mentre nel mondo virtuale questa correlazione diretta viene a mancare. Senza la percezione di effetti avversi è chiaro come non esista una situazione moralmente difficile per chi mette in atto questa tipologia di condotte.
L’abuso verbale, nella forma di commenti offensivi, denigrazioni, insulti e quant’altro ha effetti nocivi specifici. A differenza delle condotte fisicamente distruttive, quelle verbali non mostrano una lesione in evidenza o urla di dolore a dare una manifestazione riconoscibile ai sensi. Il vedere e il sentire il dolore sono elementi che attivano i meccanismi di affiliazione e di cura e, in taluni casi, riescono anche a interrompere l’agito truculento.
L’esposizione a elementi di natura violenta e narrazioni che tendono a indagare ogni minimo dettaglio, senza distinguo tra sfera intima e analisi indiziaria, che dovrebbe essere condotta dalla magistratura e non da un’utenza pubblica, ha l’effetto di dar voce a questa aggressività sopita. Lo scaricamento dell’aggressività viene difatti autolegittimato e autogiustificato per mezzo del paragone e con l’attuazione di un giudizio nei confronti di una persona ritenuta colpevole. È così che vediamo attuarsi condotte dell’agency morale quali il confronto vantaggioso e il linguaggio eufemistico. Le giustificazioni della violenza mediatica assumono varie forme. Una motivazione efficace è sempre quella della protezione costituzionale della libertà di parola, che viene spesso invocata insieme a scenari allarmanti.