Quando la prospettiva ideologica orienta le scelte creative, quando una tesi precostituita viene declinata in una costruzione drammaturgica, ai fatti narrati si preclude uno sviluppo autentico, spontaneo e genuino e li si piega appunto alla logica dell’ideologia (che è pregiudizio e dogma), alle sue esigenze, alle sue finalità. Approccio destinato, nella fiction in generale, ad approdi spesso privi di autentico spessore artistico. Quando tale prospettiva si adotta nella ricostruzione di una vicenda realmente accaduta, si consegna inoltre al pubblico un’opera che, pur promettendo la “verità”, risulta solo portatrice della verità degli autori, delle loro opinioni (autentiche o di maniera), dei “filtri” attraverso cui osservano la realtà e, dunque, non raccontano la realtà ma ne propongono surrettiziamente (impongono) una interpretazione.
La serie Il Mostro prodotta da Netflix e diretta da Sergio Sollima promette la verità sui delitti del Mostro di Firenze, dichiara una fedeltà assoluta ai fatti e alle indagini così come si sono effettivamente dispiegati in tanti anni. Vanta la consultazione di atti giudiziari e inchieste giornalistiche, insomma si propone come la ricostruzione “definitiva” di una delle vicende giudiziarie più problematiche e tormentate del nostro Paese. “Questa storia è stata ricostruita sulla base dei procedimenti e delle indagini ancora in corso”, si legge all’inizio di ciascuna puntata, prima dei titoli di testa.
Tanto dichiarato impegno e aderenza alle risultanze documentali, per poi svendere la realtà all’ideologia. Fin dalle prime battute, gli autori presentano esplicitamente come femminicidi delitti le cui vittime sono coppie composte da una donna e da un uomo e, in un caso, da due uomini. Ma il pregiudizio non ha bisogno della realtà, ne crea una propria per perseguire il suo fine di orientamento delle opinioni.
Qui l’intento, fin troppo scoperto, è quello di porre in correlazione il caso di allora con istanze culturali correnti e con una seria problematica attuale (e non solo). In nome di un conformismo palesemente finalizzato a riscuotere facile successo di pubblico e critica, non si è ottenuto, riteniamo, né il risultato di rievocare adeguatamente il caso di allora, né quello di sensibilizzare il pubblico in modo sincero ed efficace su un fenomeno drammatico come quello del femminicidio e della violenza di genere. Un’operazione studiata a tavolino, che rivela in ogni istante la sua artificiosità.
Si dirà: va bene, gli autori palesano la volontà di rileggere la vicenda secondo la prospettiva culturale di oggi ma, visto il consistente lavoro di documentazione, avranno pure ricostruito l’indagine nei suoi sviluppi, magari approdando a una inedita e plausibile ipotesi sull’identità del Mostro di Firenze.
Non ci si illuda, in proposito: inesattezze e “licenze poetiche” non mancano, nelle quattro puntate di cui si compone la serie, né in esse si dà conto del carattere controverso di molti aspetti del caso. In tema di ipotesi investigative, la produzione ne prospetta più di una, non facendo altro che ripercorrere gli sviluppi della pista sarda, inevitabilmente scontrandosi con la sua fumosa contraddittorietà che, nel reale dispiegarsi dell’inchiesta, ne avrebbe decretato la definitiva archiviazione nel 1989, con il proscioglimento di tutti i sospettati.
Nulla di nuovo, dunque, sotto nessun punto di vista. Viene il sospetto che la volontà, da parte degli autori, di riesumare la pista sarda, derivi proprio dal fatto che essa ben si presta a evocare, in sede di costruzione narrativo-drammaturgica (peraltro con il rischio, sempre incombente, di facili generalizzazioni e derive caricaturali), le aberrazioni della cultura patriarcale e della violenza di genere che ne deriva, unico vero fondamento e giustificazione della “visione” che ha ispirato la serie.
E mentre, da una puntata all’altra, i magistrati impegnati nell’indagine passano in rassegna i brutali uomini abusanti del milieu dei sardi emigrati in Toscana, constatando il loro odio per le donne e accusandoli di aver commesso una sempre più nutrita serie di atroci duplici omicidi, il vero Mostro di Firenze, animato da una misoginia ben più sottile, contorta e meno platealmente lombrosiana, è libero di agire indisturbato.
L’ultima puntata lascia intravedere Pietro Pacciani e, forse, prefigura quello che potrebbe essere il seguito della produzione (Il Mostro, stagione 2: Compagni di merende?), eventualmente volto a esplorare ulteriori declinazioni delle aberrazioni della cultura patriarcale, nel tentativo di dare, attraverso una lettura “ideologica” di maniera dei suoi delitti, un volto allo sconosciuto serial killer.
A nostro avviso, un cattivo servizio reso alle vittime del Mostro ed a quelle della violenza di genere che affligge la nostra società vulnerata.
“Per una volta parto da una storia vera e quindi dovendole una particolare attenzione, cura e rispetto”, ha dichiarato il regista de Il Mostro, durante le riprese. “E pudore e rigore, lasciamelo dire, li dobbiamo alle vittime.”
Vittime che, nella serie Netflix – a parte Barbara Locci, la cui vicenda personale viene reinterpretata alla luce delle summenzionate esigenze programmatiche – hanno a malapena un nome e certo non una identità, una personalità e una vita: sono soltanto corpi nudi intravisti nella notte, anonime e fugaci comparse utilizzate per realizzare le scene più truculente. Ci permettiamo di dubitare che i familiari delle ragazze e dei ragazzi uccisi dal Mostro di Firenze possano aver apprezzato una scelta del genere. E non è nemmeno scontato che la Locci si sarebbe riconosciuta nel ritratto che la serie ne propone.
Qualche parola, infine, sull’aspetto estetico della realizzazione. Strutturata attraverso continui salti temporali, non è facile da seguire per chi non conosce il caso nei dettagli e anche i cosiddetti mostrologi potrebbero non essersi trovati particolarmente avvinti dalla narrazione. Certo, una struttura tanto articolata e, a tratti, persino contorta, non favorisce l’immedesimazione dello spettatore nelle vicende rappresentate. Il resto, è protocollo: tagli di inquadrature, colori, effetti sonori, silenzi, lentezza come in decine o centinaia di produzioni “crime”, di fiction o “ispirate alla realtà”. Gli interpreti, per così dire, del tutto nella media delle nostre produzioni.
Per chi si interessa della vicenda dal punto di vista criminologico e investigativo, un’occasione mancata. Per il pubblico dei non addetti ai lavori, si spera che costituisca almeno uno spunto per ulteriori, più utili approfondimenti.
Il Mostro di Firenze secondo Netflix: pista sarda e patriarcato. E l’ideologia cancella la realtà

